Avevo guidato tutto il giorno, inseguendo l’orizzonte.
La strada sembrava infinita, un nastro d’asfalto che si snodava attraverso un paesaggio sospeso nel tempo.
Gli alberi si piegavano verso di me, i rami che graffiavano il cielo grigio.
La macchina ebbe un sussulto, una volta, poi un’altra, e infine si arrese del tutto.
Scesi.
Il mondo era immobile. Solo di tanto in tanto un battito d’ali rompeva il silenzio.
Poi, in lontananza, un lieve ronzio di motore.
Arrivò all’improvviso, come uno strappo nel tessuto del momento — su una moto nera.
La sua giacca di pelle rossa brillava contro i toni spenti della sera, catturando la luce in brevi bagliori mentre si fermava davanti a me.
— Ti sei perso? — chiese, inclinando appena la testa.
I suoi occhi, parzialmente nascosti dall’ombra della visiera, avevano un’intensità silenziosa che rendeva difficile distogliere lo sguardo.
— La macchina è morta — risposi, lanciando un’occhiata malinconica all’auto. — E non c’è campo.
Annuì, come se quello spiegasse tutto.
— Il villaggio non è lontano — disse. — Ti ci porto io.
Non aspettò la mia risposta, si spostò appena, indicando che dovevo salire dietro di lei.
La moto ruggì, e partimmo.
Il vento mi sferzava il viso, mentre la strada si restringeva sotto un fitto tetto di alberi, le loro forme che si allungavano e si deformavano nel turbinio del nostro passaggio.
Il tempo si sfilacciò. Non saprei dire se viaggiammo per minuti o per ore, quando infine il paesaggio si aprì davanti a noi.
Sotto di noi giaceva un villaggio, con tetti storti e viuzze che si arrampicavano alla base di una collina.
E in cima, sorgeva una casa — una forma strana, fluida, che sembrava muoversi pur restando ferma.
La casa sfidava la logica.
I suoi tre piani si torcevano e si avvolgevano come se fossero stati plasmati da mani impazienti di tracciare linee rette.
Metallo e vetro si incurvavano in onde, e la facciata rifletteva il cielo livido a frammenti.
Sembrava viva, quasi respirasse al ritmo della natura intorno a sé.
Lei fermò la moto ai margini del villaggio e si voltò verso di me.
La giacca rosseggiava nella luce incerta, come se custodisse un fuoco interno.
— Sono sicura che qualcuno nel villaggio potrà aiutarti con la macchina — disse.
— Grazie. Scusa… ma cos’è quella casa sulla collina? — chiesi, indicando la sagoma bizzarra.
— La casa a tre piani — rispose, come se bastasse quello, e prima che potessi chiedere altro, riaccese il motore e scomparve nel bosco.
Camminai per le strade del villaggio, gli occhi che scorrevano sulle insegne storte e le finestre chiuse.
Cercavo un’officina, ma i pensieri tornavano sempre alla casa sulla collina.
La sua sagoma si stagliava nitida contro il cielo che imbruniva, come un faro — o forse un avvertimento.
Provai a scacciare l’idea, ma i miei piedi mi portarono in quella direzione, spinti da una forza invisibile.
In pochi minuti, ero davanti alla porta d’ingresso.
La casa era illuminata, le finestre irradiavano una luce calda e dorata.
Non sembrava abbandonata, ma neppure abitata.
Esitai, il peso delle domande non dette che mi tratteneva.
Era un museo in attesa di visitatori?
Un pezzo di architettura d’avanguardia?
O qualcosa di più pratico — un centro di ricerca, forse? Un laboratorio?
E poi, un pensiero più oscuro mi attraversò la mente:
era una casa privata?
Stavo forse per entrare dove non avrei dovuto?
Per un attimo, quasi tornai indietro.
Ma la casa sembrava aspettarmi, il suo silenzio denso e carico di presagio.
Un ultimo barlume di esitazione, poi allungai la mano sulla maniglia.
Piano terra
La maniglia era fredda sotto le dita, una curva liscia di metallo che si aprì con un sibilo.
Appena entrai, sentii il mondo spostarsi.
Il piano terra era un vasto spazio di pietra levigata e vetro.
Le pareti erano costellate di nicchie che custodivano frammenti di vita — un vaso romano, un paio di scarpe da corsa, un modellino di astronave — ciascuno immerso in una luce propria, pallida e sospesa.
Non osai toccare nulla.
Eppure, mentre restavo lì, sentii qualcosa attraversarmi, un legame inspiegabile, primordiale.
Mi mossi cautamente verso la seconda stanza: la biblioteca.
Scaffali che salivano fino al soffitto, stipati di libri d’ogni forma e colore.
Al centro, una poltrona dal design antico e accogliente, accostata a una pianta fatta di corallo vivente, fragile ma indomita.
Una grande finestra curva occupava un’intera parete, incorniciando il mondo esterno come un dipinto.
Le colline, la strada — tutto era lì, eppure distante, irreale.
Davanti a me, una scala a chiocciola si arrampicava verso l’alto, attirandomi inesorabilmente.
Primo piano
L’aria qui era più calda, più densa.
Le pareti erano un mosaico irregolare di lastre metalliche e specchi, che si piegavano e riflettevano in modi impossibili da seguire.
Le mie immagini si moltiplicavano, si frantumavano, si ricomponevano da angolazioni impensabili.
La stanchezza mi appesantì, e senza accorgermene scivolai in uno stato nebuloso, sospeso tra veglia e sogno.
Mi vidi correre sotto la pioggia, ridendo.
Mi vidi solo, in una stanza vuota, fissando un orologio fermo.
Mi vidi a scuola.
Mi vidi danzare nel buio.
Le voci iniziarono piano, un sussurro intrecciato di molte voci familiari, troppe per seguirle, ma tutte struggenti.
Parlavano di scelte non fatte, strade mai percorse, volti dimenticati ma ancora presenti, da qualche parte in me.
Attico
L’ultima scala sembrava infinita, un nastro d’acciaio che si torceva verso il cielo.
Salii, le gambe in fiamme, l’aria che si faceva sottile a ogni passo.
Quando raggiunsi la cima, entrai in uno spazio che non era affatto una stanza.
Le pareti erano sparite, sostituite da enormi vetrate che si aprivano sul vuoto.
Sopra di me, le stelle ardevano con una chiarezza impossibile, più vicine di quanto avessi mai sentito.
Su un lato del soffitto, i pannelli si allineavano a formare una croce.
Guardandola, capii che indicava la costellazione dello Scorpione.
Riaffiorò un ricordo — un sabato mattina di novembre, quando la mia vita si era azzerata, e tutto era ricominciato.
Sotto di me, il mondo si piegava su se stesso, come un origami di terra e cielo.
La casa respirava, il suo ritmo che si accordava al mio.
Il tempo si dissolse.
Rimasi sull’orlo di qualcosa che non sapevo nominare, sospeso tra l’infinito e l’intimo.
Non so quanto restai lì, a guardare le stelle muoversi come inchiostro nell’acqua.
Sapevo solo che la casa mi tratteneva, come se avesse fermato il tempo — giusto il necessario per farmi percepire le dimensioni inesplorate della mia esistenza, strati che non avevo mai immaginato.
Per la prima volta, sentii la profondità, le pieghe nascoste della mia vita, e gli echi delle possibilità che non avevo mai osato esplorare.
Poi mi ritrovai a camminare giù per la collina verso il villaggio, anche se non ricordavo di essere uscito.
Trovai l’officina per caso.
Un uomo con un furgone blu mi riportò alla macchina e la riparò in silenzio.
Girando la chiave, il motore riprese a vibrare.
Davanti a me, la strada si stendeva di nuovo, infinita.
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